COSA CI PORTIAMO IN SEDUTA - 11 settembre 2020
La “valigia” per affrontare una psicoterapia o una mediazione familiare è un concetto che ricorre spesso. È riferito a ciò di cui deve servirsi il conduttore (psicoterapeuta e/o mediatore) nel compiere tali percorsi, in grado di contenere quelle nozioni, regole di comportamento o competenze che possono risultare utili. La nostra idea è che tutto ciò sia vero, qualcosa lo portiamo con noi ed è sicuramente necessario.
Ma il concetto di “valigia” ci sembra eccessivo. Diciamo che è più che sufficiente uno zainetto, ben riempito di poche cose molto utili.
La prima è la curiosità, quel concetto che Gianfranco Cecchin preferì a quello di neutralità di origine psicoanalitica. Grazie alla curiosità si ha la spinta a conoscere, e qualsiasi lavoro di ricerca si fonda necessariamente su essa.
La seconda è l’astensione dal pregiudizio e dal giudizio (per quanto umanamente possibile). La ragione è semplice: ci accingiamo ad ascoltare il racconto di vite e di vicende che non sono nostre. Stiamo per conoscere rapporti e stati d’animo che si sono costruiti e sviluppati in anni. Se inquinassimo l’ascolto con i nostri pregiudizi, e se inquinassimo le nostre parole con i nostri giudizi, ci comporteremmo con la doppia tracotanza di voler aver capito tutto da pochi indizi, e per giunta di volerlo spiegare con le nostre categorie di pensiero.
La terza è la capacità di usare il paradosso. Uno degli scrittori americani del XX Secolo più discussi ma anche più interessanti, Jack Abbott, ha felicemente definito il paradosso come qualcosa che “solletica il calore umano, non lo grava con la disperazione dell’assurdo, dell’esistenza senza significato”, tracciando così una linea di demarcazione con l’assurdo (che del paradosso è la caricatura drammatizzata) e valorizzandone il ruolo di stimolo, uno stimolo dolce che non ferisce, ma per l’appunto “solletica”.
La quarta cosa è l’irriverenza. Non nel senso della mancanza di rispetto (Luciana Nissim Momigliano chiedeva espressamente al terapeuta la capacità di un “ascolto rispettoso”), ma nel senso del guardare – e spingere a guardare – oltre, senza infingimenti o remore, con sfrontata delicatezza.
L’ultima naturalmente è la tecnica, ma quella è affare nostro.