LE ASPETTATIVE DELLA COPPIA NEL PERCORSO DI MEDIAZIONE - 2 aprile 2021
Uno degli elementi cruciali da esaminare in un processo di mediazione è quello della motivazione con cui due separandi decidono di affrontare il percorso. Sotto questo punto di vista possono distinguersi a grandi linee due modalità, a seconda dei momenti in cui la mediazione avviene. Le differenze di motivazione possono infatti presentare delle tipicità nella fase iniziale della separazione, o quando la separazione è ormai un fatto assodato e stabilizzato.
Nel primo caso, quando cioè la separazione è appena avvenuta, la differenza riguarda le finalità stesse del percorso. Spesso la scelta di chiudere il rapporto matrimoniale non è presa contestualmente, ma almeno formalmente è agita dall’uno e subita dall’altro. È perciò possibile che l’approccio all’intera mediazione risenta di queste diverse premesse. Concretamente chi ha intrapreso il percorso separativo desidera la mediazione per accelerare tale processo e per far sì che l’altro in qualche modo “se la metta via” e rinunci a qualsiasi ulteriore speranza di ripresa della relazione matrimoniale. Chi invece sta subendo il percorso separativo desidera la mediazione nella speranza che l’altro venga convinto dal mediatore a recedere dal proprio progetto e accetti una ripresa del rapporto matrimoniale. Queste sono esigenze spesso chiaramente verbalizzate nella fase iniziale del percorso. “Dottore, sono qui perché lei (o lui) capisca che è veramente finita”. “Dottore, sono qui perché voglio che lui (o lei) metta la testa posto e si renda conto dell’errore che sta commettendo”. In ogni caso, verbalizzate o meno che siano, si tratta in entrambi i casi di prese di posizione che mettono il mediatore nelle condizioni di avere chiare le rispettive aspettative, e la sua attività non potrà che trarre giovamento da questo tipo di chiarezza.
Nelle fasi successive, quando cioè la separazione è ormai un dato di fatto accettato da entrambi gli ex coniugi, le aspettative sul percorso possono essere meno definite e più subdole. Una di queste riguarda spesso la volontà di dimostrare le incapacità genitoriali dell’altro versus la propria adeguatezza. Oppure la propria capacità di mettersi in gioco (accettando il percorso mediatorio) versus l’incapacità dell’altro, visto come impermeabile ai cambiamenti, al mettersi in discussione, ad attribuire il benché minimo valore ai punti di vista dell’ex coniuge ecc. I campanelli d’allarme in questi casi sono piuttosto tipici: già al momento della richiesta di incontro sono particolarmente interessanti domande del tipo “ma secondo lei dottore, di quante sedute c’è bisogno per capire che non c’è nulla da fare?”, molto più frequenti – con minime variazioni – di quanto si pensi. Oppure, al momento dell’incontro, l’adesione entusiastica a qualsiasi proposta formulata dal mediatore (data del prossimo incontro, proposte di incontri individuali ecc.) per dimostrare per contrasto la riluttanza dell’altro partecipante ad aderire al percorso. Certo, poi possono verificarsi situazioni paradossali perché non è infrequente che proprio chi sembra meno disponibile sia anche colui che fa i maggiori sforzi, mettendo sotto scacco l’altro che non aspettava tanta disponibilità ed era certo di poter vivere di rendita sulle proprie aspettative.