Louise Erdrich - LaRose - Feltrinelli
Questa meraviglia di 455 pagine vive la propria svolta dopo una pagina e mezza: nel corso di una battuta di caccia Landreaux uccide per errore il nipote. Secondo una tradizione degli indiani americani la famiglia che infligge un simile dolore deve ripararlo, cedendo alla famiglia della vittima un proprio figlio in sostituzione dell’ucciso. Così inizia la vicenda di LaRose, il figlio più piccolo di Landreaux che viene “donato” e che si troverà nella condizione drammatica di costituire un risarcimento perdendo i propri legami e dovendone instaurare di nuovi, oltretutto in un ambiente attonito e addolorato per la perdita drammatica di un figlio.
La particolarità di questo libro sta nella vicenda: essa ha uno sviluppo inconcepibile per il lettore, perlomeno per il lettore che abbia la nostra impronta culturale: come si fa a immaginare una pena come questa per un’uccisione involontaria? Possiamo concepire un processo, un risarcimento, magari una condanna a una pena detentiva, ma cedere un proprio figlio sfugge a una regola interiore profonda, almeno pari alla sacralità della vita che si è violata. Eppure lo sviluppo della vicenda – pur con la premessa inconcepibile di cui sopra – è perfettamente plausibile, ognuno di noi si ritrova nei personaggi, nei famigliari che hanno perso il figlio morto e in quelli che hanno perso il figlio ceduto, ma soprattutto in lui, LaRose, che accetta il proprio destino sottomettendosi a una regola nata prima di lui e destinata a sopravvivergli. Qui sta la differenza: le scelte importanti, quelle culturalmente determinate, ci sono aliene. Il modo di viverle viene narrato in modo tale da appartenerci, perché la sua descrizione ce lo fa sentire vicino, nostro.
La vicenda ovviamente non si risolve, come non può risolversi un dolore così impossibile da accettare. Ma è bellissimo il bagliore di speranza che traspare nell’ultima pagina (singolare come la vicenda contenga le proprie pietre miliari nelle prima e nell’ultima pagina), quando viene riportato un detto indiano che collega il dolore col tempo in modo mirabile:
Noi vi amiamo, non piangete.
Il dolore mangia il tempo.
Siate pazienti.
Il tempo mangia il dolore.
È il senso di tutta la vicenda, è un respiro che aiuta a immaginare un domani, a recuperare - con lentezza e con pazienza - un significato alla vita.