Michele Mari - Tu, Sanguinosa Infanzia - Einaudi
Questo libro è francamente strano. La struttura è costituita da piccoli brani che affrontano vari aspetti della vita di un bimbo, il suo rapporto con gli oggetti dell’infanzia come il gioco del cowboy, i giardinetti, i puzzle, il disegno, i colori ecc; il linguaggio utilizzato è gravido di immagini, ricco, forse troppo. Questo “troppo” deriva però da gusti personali, così come la sensazione – se non di fatica almeno di gravosità - incontrata nella lettura, per quanto si tratti di un libretto di meno di 130 pagine.Si ragiona (come si impara) per differenze, e nel leggerlo mi veniva in mente spessissimo lo stile di Raymond Carver, che mi sembra rappresenti l’opposto in termini stilistici della scrittura di Mari. Insomma, come a dire che conoscendo l’uno ci si può immaginare per contrasto un pochino anche l’altro.
Libro “brutto”? Assolutamente no. Intanto l’idea è felicissima: far parlare i ricordi del bambino divenuto uomo è una operazione stimolante per il lettore, aiuta il viaggio nel proprio passato, permette di ritrovare tanti ciottoli lasciati indietro che nel frattempo hanno assunto altri significati e hanno nuove cose da raccontare. E poi si tratta di un libro oggettivamente scritto con grande capacità, al di là della lettura impegnativa.
Tre sono i brani che mi sento di consigliare sopra tutti gli altri.
Il primo è “L’uomo che uccise Liberty Valance”, quando il bambino viene richiamato dal padre – nel corso di un dialogo onirico e surreale – a rendere conto dei tanti giochi perduti, abbandonati o prestati nel corso dell’infanzia, quasi a simboleggiare il necessario rito di passaggio dell’ingratitudine.
Il secondo è “La freccia nera”, che racconta l’ansia del bambino che deve nascondere al padre che il libro che gli è appena stato regalato in realtà l’ha già letto. Parlavo di Carver all’inizio: ebbene io un pizzico della sferzante capacità di lasciare il mondo sospeso che ha Carver l’ho ritrovato nel finale di questo racconto.
E poi “Laggiù”, il brano finale, che condensa la particolarità strutturale e l’intensità dei contenuti di tutto il libro: un racconto tutto dialogo tra due bambini ormai divenuti vecchi (l’unica descrizione della scena si limita a una sera d’estate, nel giardino di un ospizio), che elencano i propri ricordi dell’infanzia per brevi immagini alternate. E il loro scambio finale sull’infanzia perduta merita di essere consegnato alla raccolta di consapevolezze che dovrebbero accompagnare ognuno di noi: “Non c’è stato molt’altro, nella vita”. “No, è quasi tutto laggiù”. Applausi.